o anche “perchè i paesi esteri si divertono a rendere un vero schifo dei cult italiani?”
La sera precedente ad un giorno di festa nazionale, per me, è sempre fonte di disagio e distruzione.
Non dico necessariamente fisica ma mentale sicuramente si. Mi sono accorta, infatti, non solo di non poter assolutamente controllare questa successione di eventi sfortunati e indicibili, ma anche di esserne coinvolta benchè decida di chiudermi in casa a guardare la televisione dopo una cena ipercalorica e varie bevande gassate.
In realtà, tutto quello che volevo (e dico davvero: era la prima volta che sapevo davvero fino in fondo cosa volessi) era rilassarmi e non pensare a nulla che alterasse il mio già precario equilibrio psicologico.
A quanto pare non avevo considerato i pessimi registi americani con le loro fissazioni pseudo horror e il loro amore nel rasentare l’assurdo nei loro polpettoni “pro teen”. Cosa che, se tenessero lontane le loro dita appiccicose di salsa barbecue e ketchup dai cult mi andrebbe anche bene, come disse qualcuno di famoso o magari mia nonna, non ricordo “vivi e lascia vivere”.
Invece, proprio ieri, vigilia della festa dei lavoratori mi sono imbattuta nel classico polpettone per ragazzini con i primi pruriti ma che faticano a lasciare il mondo dei fumetti e delle sfere pokè: il film (rigorosamente di produzione USA) basato sul fumetto italiano cult. Dylan Dog.
Il film, girato dal regista canadese (e non venitemi a dire “avevi detto registi americani!” perchè per quanto mi riguarda i canadesi sono degli americani di serie B con la fissa per l’ambiente e gli orsi) Kevin Munroe, non si limita ad ispirarsi al fumetto, bensì ne rappresenta la storia riprendendo il personaggio principale che si ritrova ad interpretare il ruolo di indagatore dell’incubo malgrado i suoi iniziali rifiuti.
Da principio la prima cosa che salta all’occhio è la fotografia: non potete davvero pensare di portare un fumetto sulla scena cinematografica senza toni chiaro-scuri ed effetti noir anni ’50. Un fumetto come quello di Tiziano Sclavi soffre del distacco da carta e inchiostro, rappresentarlo luminoso e appariscente è stuprarne l’anima.
Da affezionata lettrice il colpo al cuore è arrivato con la frase dell’interprete principale del film, Brandon Routh, che come se niente fosse spara dall’inzio alla fine del lungometraggio due o tre “giuda ballerino” con l’enfasi di un Giletti ubriaco. Non ha assolutamente nulla del protagonista cartaceo: non l’aspetto trascurato, non la tormentata anima, non lo sguardo spesso assorto nè la sensibilità malcelata.
Per niente rappresentativo il suo assistente: un certo Marcus (chi diavolo è? qualcuno me lo può spiegare che fine ha fatto Groucho Marx? Era troppo politicamente scorretto per i produttori americani dar vita a un personaggio schizofrenico e dai forti e sarcastici richiami comunisti?) imbranato patologico tanto da scadere nel finto carattere, che immediatamente viene ucciso per poi diventare un petulante zombie. La ciliegina sulla torta è l’intreccio del film: una trama quasi incomprensibile dove subentrano una miriade di terzi personaggi tra vampiri con tutta la sacra famiglia, licantropi e discendenti, supermercati per non-morti e tradizioni che richiamano le sette sataniche anni 70′, il tutto condito con la ragazzina carina bellina tutta in tiro che, da agnellino ingenuo diviene, all’ultimo momento, guerriero a caccia di mostri con uno scopo ben preciso.
Tanto per dire che alla fine il “colpo di scena” c’è. Almeno quello.
Luca Raffaelli de la Repubblica dopo aver visto il film lo ha definito «un buon film di serie B che prende ispirazione da un grande fumetto di serie A» sottolineando che dentro al personaggio interpretato da Brandon Routh «non c’è niente» a differenza del Dylan Dog originale che «usa l’horror per parlare di altre cose».
Secondo Roberto Nepoti della stessa testata «non c’era bisogno di scomodare il fumetto italiano di culto per mettere in scena un nuovo episodio di Underworld […] È un teenmovie di serie B. Solo più costoso».
Per Maurizio Porro del Corriere della Sera il film merita un voto di tre su 10, perché è una «emanazione spuria, violenta, noiosa del fumetto di Sclavi», un «horror mimato, più che recitato, da Brandon Routh che ha l’espressività di un sasso palestrato» con alcuni spunti divertenti che «affogano tristi tra le viscere».
Secondo Anna Maria Pasetti de il Fatto Quotidiano il film contiene una complessiva «superficialità narrativa, registica e creativa» e vederlo «è come assistere alla trasformazione di una collezioneArmani in American Apparel».
Per Maurizio Acerbi de il Giornale il film è «un palliativo» ben lontano dal fumetto a partire dal protagonista che «di emaciato non ha nulla».
Paola Casella di Europa trova nel film molti elementi che lo fanno sembrare un cult–trash, come gli effetti speciali e il personaggio di Marcus, ma dimenticandosi la fonte e vedendolo «nella sua dimensione camp artigianale e nella sua totale mancanza di pretese è anche divertente». Secondo Dario Zonta de l’Unità è «una boiata pazzesca, in sé, come film e non solo come adattamento».
Federica Aliano per Film.it ha criticato duramente il film, definendolo «ben peggiore di tutte le più buie aspettative» ed ha evidenziato la distanza col fumetto: «Il sapore più adulto del capolavoro di Tiziano Sclavi non è mai stato ottenuto con lo splatter dei magnifici disegni, ma con un’introspezione psicologica e con proiezioni spaventose nel reale degli incubi e delle paure più profonde dei personaggi e dei lettori stessi».
Secondo Marianna Cappi di MYmovies è «un film essenzialmente rivolto a un pubblico adolescente» con una trama prevedibile che «converge al fine ultimo del protagonismo assoluto di Brandon Routh» la cui interpretazione, dopotutto, «non è da buttare».
BadTaste.it critica l’interpretazione degli attori (Routh è «talmente superficiale da risultare irritante»), la sceneggiatura «che riesce nella straordinaria impresa di copiare qua e là» e gli effetti speciali definiti «delle maschere di carnevale comprate al supermercato».
Federico Gironi di Coming Soon Television, valuta il film separandolo dal materiale originale e trova molti rimandi a Underworld, Buffy l’ammazzavampiri o a True Blood che trasformano il film «in un omogeneizzato, in un prodotto buono per palati giovanissimi e senza troppe strutturazioni gustative» con una regia che, però, «evita d’irritare lo spettatore e azzecca un paio di gag di alleggerimento».
Critiche negative arrivano anche da Marco Lucio Papaleo di Everyeye.it che dà al film un voto globale di 5 su 10: «Tecnicamente Dylan Dog – Il film non è male e a tratti intrattiene pure. Ma non è Dylan Dog. E se pure rimpiazzassimo tutti i nomi […] avremmo solo un film curato, ma sostanzialmente inutile e già visto».
Anche Roberto Castrogiovanni di Movieplayer.it tenta di non paragonare il film al fumetto, ma anche così facendo «non tutto è perfetto» e il problema più grande è «nel soggetto di partenza e nell’elaborazione della sceneggiatura»: lo sviluppo si rivela prevedibile, la costruzione dei dialoghi è modellata su stereotipi abusati e Brandon Routh rimane un semplice action man.
Per Luca Maragno di Best Movie il film ricorda una puntata di un serial TV che riesce a strappare qualche risata voluta, ma anche qualcuna involontaria e merita un voto di 1 su 5.
Il medesimo voto è dato anche da Luca Castelli che su Il Mucchio Selvaggio scrive: «Non che il film di Kevin Munroe sia il più brutto della storia: in giro si vede anche di peggio. Ma per il lettore del fumetto, già il semplice accostamento appare un sacrilegio. Dylan Dog è il Rupert Everett di 35 anni. Groucho Marx è il Groucho Marx del 1935. Craven Road è Craven Road di Londra, non Rue Craven a New Orleans. E Dylan non è un investigatore privato, ma l’indagatore dell’incubo. E sempre lo sarà».
Dal mondo del fumetto le critiche non sono state migliori e per Paola Barbato, sceneggiatrice, i cambiamenti sono andati contro «il concetto proprio di Dylan Dog»: «Il rispetto per il personaggio è fondamentale, poi la resa esterna può cambiare».
Secondo Roberto Recchioni, sceneggiatore, è «un film brutto e piccolo», mentre per Mauro Boselli, il creatore di Dampyr, «il film ha tradito lo spirito del personaggio alla ricerca di una facilità narrativa da telefilm». Tiziano Sclavi inizialmente ha preferito non approfondire questo argomento. In seguito in un’intervista a l’Unità ha affermato: «Il film non l’ho visto e non mi piace. […] Dire che il film non l’ho visto e non mi piace è un modo per dire che non mi va di parlarne. La vicenda della cessione dei diritti di Dylan è troppo intricata per spiegarla al pubblico, ed è fonte per me solo di incazzatura (e non uso a caso questa parola forte)». Su la Repubblica XL ha ribadito che anche «quando il film uscirà in blu-ray non lo vedrò e non mi piacerà», spiegando di aver potuto leggere la sceneggiatura senza diritto di veto.
A fronte di una critica giustamente e razionalmente spietata non resta che concludere con una semplice e quanto mai pertinente citazione: “il film Dylan Dog “Dead of Night” è una cagata pazzesca”.