IT è (ancora) un capolavoro generazionale. Ve lo dico io.

Vedere il remake di un film cult  preso da un libro altrettanto cult è come costruire un mobile Ikea: sembra semplice ma sarà difficile, emotivamente toccante e a tratti doloroso.  Per questo quando mi sono seduta sul sedile del multisala, difronte al maxi schermo, mi tremavano le ginocchia: mesi e mesi di hype e paranoie destinate a dissiparsi in un paio di ore.

IT863789.jpg

Il nuovo IT è un horror fatto ad arte, preciso, ben cadenzato nei suoi “jumpscare” e nei momenti di tensione, una pellicola articolata tra scene mozzafiato e analisi introspettive, che rimane ancorato alle paure classiche sapendole rivisitare (la ripresa delle movenze grottesche usate negli horror coreani di nuova generazione è un esempio di come anche il concetto di “terrore cinematografico” possa evolversi e cambiare con gli anni)

Nonostante lo scetticismo della critica, Andy Muschetti ha saputo ricreare e far rivere l’ansia dell’adolescenza e le sue angosce senza stucchevolezza, con le sue contraddizioni e le poche certezze in un’età che, come disse King stesso “si smette di credere a Babbo Natale ma hai ancora paura che ci sia qualcosa ad aspettarti sotto il letto, al buio”.

Non è solo questione di budget, di sapiente sceneggiatura già collaudata o di clichè horror: Bill Skarsgård è uno strepitoso Pennywise, a tratti affabile e aggressivo quanto basta, mai bidimensionale o scontato, a differenza del clown rappresentato da Tim Curry è un cattivo misurato, subdolo, che mostra bene la sua malvagità dosando ogni espressione. Di lui il regista dice: “Il personaggio ha un comportamento infantile e dolce, ma c’è qualcosa di molto perverso in lui. Bill ha questo equilibrio. Può essere dolce e carino, ma sa anche essere abbastanza inquietante”.

Pennywise-1-1

Il punto forte non è solo la caratterizzazione del “villain” per eccellenza, ma una rete di intese ed intrecci emotivi in cui si rimane letteralmente intrappolati: non puoi fare a meno di simpatizzare per il gruppo dei “perdenti”, i 7 ragazzini riportati sullo schermo in una pigra estate tipicamente anni 80′, non si può fare a meno di riconoscersi in loro: disadattati, spesso fuori luogo, degli imbranati cronici inascoltati e incompresi.

Ciliegina sulla torta è la scelta del pezzo “Dear God” degli XTC, che spezza il climax di angoscia e paura del film riportandolo ad una dimensione umana, con l’intento sottile di mostrare le insicurezze e le incomprensioni interne alla comitiva.

Se avessi avuto un euro per ogni volta che da ragazzina ho corso in bici verso posti sperduti a fare giuramenti, combattendo mostri e bulli di quartiere, a quest’ora un mutuo non sarebbe un problema. Sembra estremamente banale, ma la forza di questo film, di questa miniserie tv, di questo libro, è tutta qui: IT parla di noi, ci arriva come uno schiaffo, senza preavviso o preamboli ci ricorda ciò che abbiamo lasciato, ciò di cui avevamo paura, ciò che dovremmo combattere senza sosta o scusa che tenga.

maxresdefault

Gli adolescenti che picchiano a turno la creatura spaventosa nelle fogne eravamo noi, qualche anno fa, con i nostri sogni a farci da scudo. Gli adulti di Derry complici nella loro indifferenza siamo noi adesso, disillusi e rassegnati, barricati nei nostri salotti vintage.

Il mio week end è stato piu’ insofferente del vostro.

 Uno dei ricordi piu’ nitidi che conservo ancora dei miei 16 anni è l’attivismo politicamente scorretto che mia nonna aveva nei confronti della promozione del parto naturale.

Attivismo in cui cercava di coinvolgermi dicendo che non c’è nulla di piu’ bello e naturale di un parto e che, alla fine, come ogni cosa della vita, basta spingere. Prospettiva rosea e ottimistica che svanì con la sua frase “ah aspetta, ma tu soffri durante il ciclo, si? E no, allora soffrirai durante il parto come un cane. Mi spiace.

Credo sia stato in quel momento che abbia realizzato quanto il dolore e la sofferenza trovino sempre il modo di entrare in modo del tutto inaspettato nel nostro quotidiano.

Anche quando ne avevamo un lieve sentore.

Anche quando, forse, eravamo pronti a riceverle.

L’esempio di questa tragicomica verità è stato il mio ultimo (e corrente) fine settimana. E non mi riferisco solo al fatto di essere lasciata sola durante il ciclo con mia sorella, non mi riferisco al dover pagare due rate insieme di condominio tanto meno al film struggente misto tra horror e tragedia che ho visto, no.

Mi riferisco a queste cose tutte insieme.

Il tempismo di chi sta con te nel lasciarti “solo per due giorni” nei momenti meno opportuni è quasi come l’ultimo film di Polansky: sconvolgente. Comunque sia, ho passato gli ultimi due giorni in compagnia di mia sorella che, giocando con la cagna e facendo finta di studiare non mi ha propriamente risollevato la voglia di vivere. Quella di vedere horror invece, essendo lei una cinefila, si. 

Allora ci siamo buttate anima e corpo e birra in uno degli ultimi film prodotto da Guillermo del Toro, La madre.

La madre (Mama) è un film horror del 2013 diretto da Andres Muschietti e prodotto da Guillermo del Toro, che ha per protagonista Jessica Chastain.

La pellicola è il lungometraggio di Mamàcortometraggio in lingua spagnola del 2008 scritto e diretto da Andres Muschietti, presentato ufficialmente dallo stesso del Toro in un apposito video a poche settimane dall’uscita italiana del film.

Il film da principio promette bene: una storia intrisa di mistero e giallo dove due bambine vengono salvate da un’anima in pena che le cresce per 5 lunghi e tenebrosi anni, immersi in una foresta innevata e deserta. 

Il problema si presenta quando le pargole vengono ritrovate dalla polizia: non solo hanno la civiltà e la capacità d’espressione di Calderoli ma è evidente che l’entità materna non sarà felicissima di condividerle con la famigliola underground che vorrebbe rieducarle e reinserirle nella società. 

Le scene clou da urlo non mancano, interessante la grafica (sembra a tratti di vedere un film di Burton) leggera, toni non troppo pesanti e presenze da volti piu’ umani non tolgono nulla alla suspance e non banalizzano il senso stesso del film. 

Quello che piu’ mi è piaciuto, non so, chiamatela sensibilità da ormonauta, è stata la morale: alla fine, nel destino che crediamo essere già stato segnato con tutte le obbligazioni e le conseguenze di scelte precedenti, c’è sempre la possibilità di scegliere e di essere consapevole dell’esistenza di un sacrosanto libero arbitrio. 

E in questi due giorni di alti e bassi, di assenze, di domande e di risposte avevo bisogno di vedere come sia possibile uscire da situazioni solo in apparenza irreparabili, come sia facile e spontaneo reagire e schierarsi nonostante fantasmi e sensi di colpa ancora nitidi.

Io per esempio, conoscendo mia sorella, non avrei avuto dubbi sul fatto che avesse scelto di stare con l’ectoplasma.

 

Immagine

 

“L’amore di una madre è per sempre” cit.

Il mio week end è stato piu’ orrido del vostro.

o anche: l’orrido frutto della “festa del cinema”.

Finalmente in Italia si sono decisi a prendere d’esempio le nazioni europee, copiando senza vergogna programmi e progetti che (già da anni lontano da qui) vanno alla grande.

Purtroppo non mi riferisco a tasse, riforme pensioni e lavoro flessibile e duraturo, bensì alla Festa del cinema: progetto che da anni sbanca in Francia e che da quest’anno è approdato anche in Italia riportando gli italiani a vedere film con prezzi davvero stracciati (e non è uno slogan menzognero di H&M, credetemi).

Inutile dire che la scelta di film da guardare entusiasti non era molto rifornita: va bene fare la carità ma con moderazione. L’unico film che secondo me e la mia avventurosa comitiva (che in questa sede chiameremo “cuor di leone”) meritava di essere visto date le stelline della critica e la trama, era “La casa”: l’ultimo horror del 2013.

Immagine

Convincere chi non è amante del genere horror a vederne uno che promette anche scene splatter senza ritegno e contegno è come spiegare a un grande fan degli Oasis che i fratelli Gallagher sono dei rincoglioniti. Difficile.

Alla fine ce l’abbiamo fatta, ci siamo arresi difronte la novità e abbiamo deciso di sudare, tremare e gridare di fronte un maxi schermo senza l’assunzione di droghe.

Ormai l’hanno capito tutti: se si vuole avere un minimo di credibilità e quindi di successo nel mondo horror bisogna prendere film horror famosi e scopiazzarli senza pietà: dalla trama alle inquadrature, dalla fotografia alle interpretazioni.

La casa (Evil Dead) è un film horror del 2013 diretto da Fede Alvarez.

Il film è il remake del celebre La casa del 1981, che lanciò Sam Raimi. Oltre che essere prodotto dai noti RaimiCampbell eTapert (rispettivamente, il regista e sceneggiatore, il protagonista, e il produttore della trilogia originale), il film è il primo lungometraggio diretto dall’emergente uruguaiano Alvarez, tra gli sceneggiatori della pellicola.

Inutile dire che la trama è sempre la stessa: 5 ragazzi che decidono di passare un week end in una stamberga marciscente ai limiti del bosco, stavolta con una tossica in crisi d’astinenza che, come premio per l’impegno, verrà ripagata con uno stupro ad opera di ancora non l’ho ben capito  un “demone” nella foresta per poi essere posseduta e dare il via a una sequela interminabile di gesti efferati, amputazioni, violenza, urla, scene orride e misticismi.

In sostanza il film non è male, ne ho visti davvero di peggiori.

Certo la trama non è la carta vincente per attrarre l’attenzione e tenere incollato lo spettatore; la tensione per tutta la durata della pellicola è assicurata dalle scene forti e dalle riprese cupe.

Se non siete amanti del genere desistete: c’è un uso così smodato di sangue e affini che credo sia stato pubblicizzato ufficialmente dall’ AVIS.

Italians do it better

o anche  perchè i paesi esteri si divertono a rendere un vero schifo dei cult italiani?” 

La sera precedente ad un giorno di festa nazionale, per me, è sempre fonte di disagio e distruzione.

Non dico necessariamente fisica ma mentale sicuramente si. Mi sono accorta, infatti, non solo di non poter assolutamente controllare questa successione di eventi sfortunati e indicibili, ma anche di esserne coinvolta benchè decida di chiudermi in casa a guardare la televisione dopo una cena ipercalorica e varie bevande gassate.

In realtà, tutto quello che volevo (e dico davvero: era la prima volta che sapevo davvero fino in fondo cosa volessi) era rilassarmi e non pensare a nulla che alterasse il mio già precario equilibrio psicologico.

A quanto pare non avevo considerato i pessimi registi americani con le loro fissazioni pseudo horror e il loro amore nel rasentare l’assurdo nei loro polpettoni “pro teen”. Cosa che, se tenessero lontane le loro dita appiccicose di salsa barbecue e ketchup dai cult mi andrebbe anche bene, come disse qualcuno di famoso o magari mia nonna, non ricordo  “vivi e lascia vivere”.

Invece, proprio ieri, vigilia della festa dei lavoratori mi sono imbattuta nel classico polpettone per ragazzini con i primi pruriti ma che faticano a lasciare il mondo dei fumetti e delle sfere pokè: il film (rigorosamente di produzione USA) basato sul fumetto italiano cult. Dylan Dog.

Immagine

Il film, girato dal regista canadese (e non venitemi a dire “avevi detto registi americani!” perchè per quanto mi riguarda i canadesi sono degli americani di serie B con la fissa per l’ambiente e gli orsi) Kevin Munroe, non si limita ad ispirarsi al fumetto, bensì ne rappresenta la storia riprendendo il personaggio principale che si ritrova ad interpretare il ruolo di indagatore dell’incubo malgrado i suoi iniziali rifiuti.

Da principio la prima cosa che salta all’occhio è la fotografia: non potete davvero pensare di portare un fumetto sulla scena cinematografica senza toni chiaro-scuri ed effetti noir anni ’50. Un fumetto come quello di Tiziano Sclavi soffre del distacco da carta e inchiostro, rappresentarlo luminoso e appariscente è stuprarne l’anima.

Da affezionata lettrice il colpo al cuore è arrivato con la frase dell’interprete principale del film, Brandon Routh, che come se niente fosse spara dall’inzio alla fine del lungometraggio due o tre “giuda ballerino” con l’enfasi di un Giletti ubriaco. Non ha assolutamente nulla del protagonista cartaceo: non l’aspetto trascurato, non la tormentata anima, non lo sguardo spesso assorto nè la sensibilità malcelata.

Immagine

Per niente rappresentativo il suo assistente: un certo Marcus (chi diavolo è? qualcuno me lo può spiegare che fine ha fatto Groucho Marx? Era troppo politicamente scorretto per i produttori americani dar vita a un personaggio schizofrenico e dai forti e sarcastici richiami comunisti?) imbranato patologico tanto da scadere nel finto carattere, che immediatamente viene ucciso per poi diventare un petulante zombie. La ciliegina sulla torta è l’intreccio del film: una trama quasi incomprensibile dove subentrano una miriade di terzi personaggi tra vampiri con tutta la sacra famiglia, licantropi e discendenti, supermercati per non-morti e tradizioni che richiamano le sette sataniche anni 70′, il tutto condito con la ragazzina carina bellina tutta in tiro che, da agnellino ingenuo diviene, all’ultimo momento, guerriero a caccia di mostri con uno scopo ben preciso.

Tanto per dire che alla fine il “colpo di scena” c’è. Almeno quello.

Luca Raffaelli de la Repubblica dopo aver visto il film lo ha definito «un buon film di serie B che prende ispirazione da un grande fumetto di serie A» sottolineando che dentro al personaggio interpretato da Brandon Routh «non c’è niente» a differenza del Dylan Dog originale che «usa l’horror per parlare di altre cose».

Secondo Roberto Nepoti della stessa testata «non c’era bisogno di scomodare il fumetto italiano di culto per mettere in scena un nuovo episodio di Underworld […] È un teenmovie di serie B. Solo più costoso».

Immagine

Per Maurizio Porro del Corriere della Sera il film merita un voto di tre su 10, perché è una «emanazione spuria, violenta, noiosa del fumetto di Sclavi», un «horror mimato, più che recitato, da Brandon Routh che ha l’espressività di un sasso palestrato» con alcuni spunti divertenti che «affogano tristi tra le viscere».

Secondo Anna Maria Pasetti de il Fatto Quotidiano il film contiene una complessiva «superficialità narrativa, registica e creativa» e vederlo «è come assistere alla trasformazione di una collezioneArmani in American Apparel».

Per Maurizio Acerbi de il Giornale il film è «un palliativo» ben lontano dal fumetto a partire dal protagonista che «di emaciato non ha nulla».

Paola Casella di Europa trova nel film molti elementi che lo fanno sembrare un culttrash, come gli effetti speciali e il personaggio di Marcus, ma dimenticandosi la fonte e vedendolo «nella sua dimensione camp artigianale e nella sua totale mancanza di pretese è anche divertente». Secondo Dario Zonta de l’Unità è «una boiata pazzesca, in sé, come film e non solo come adattamento».

Federica Aliano per Film.it ha criticato duramente il film, definendolo «ben peggiore di tutte le più buie aspettative» ed ha evidenziato la distanza col fumetto: «Il sapore più adulto del capolavoro di Tiziano Sclavi non è mai stato ottenuto con lo splatter dei magnifici disegni, ma con un’introspezione psicologica e con proiezioni spaventose nel reale degli incubi e delle paure più profonde dei personaggi e dei lettori stessi».

Secondo Marianna Cappi di MYmovies è «un film essenzialmente rivolto a un pubblico adolescente» con una trama prevedibile che «converge al fine ultimo del protagonismo assoluto di Brandon Routh» la cui interpretazione, dopotutto, «non è da buttare».

BadTaste.it critica l’interpretazione degli attori (Routh è «talmente superficiale da risultare irritante»), la sceneggiatura «che riesce nella straordinaria impresa di copiare qua e là» e gli effetti speciali definiti «delle maschere di carnevale comprate al supermercato».

Federico Gironi di Coming Soon Television, valuta il film separandolo dal materiale originale e trova molti rimandi a UnderworldBuffy l’ammazzavampiri o a True Blood che trasformano il film «in un omogeneizzato, in un prodotto buono per palati giovanissimi e senza troppe strutturazioni gustative» con una regia che, però, «evita d’irritare lo spettatore e azzecca un paio di gag di alleggerimento».

Critiche negative arrivano anche da Marco Lucio Papaleo di Everyeye.it che dà al film un voto globale di 5 su 10: «Tecnicamente Dylan Dog – Il film non è male e a tratti intrattiene pure. Ma non è Dylan Dog. E se pure rimpiazzassimo tutti i nomi […] avremmo solo un film curato, ma sostanzialmente inutile e già visto».

Anche Roberto Castrogiovanni di Movieplayer.it tenta di non paragonare il film al fumetto, ma anche così facendo «non tutto è perfetto» e il problema più grande è «nel soggetto di partenza e nell’elaborazione della sceneggiatura»: lo sviluppo si rivela prevedibile, la costruzione dei dialoghi è modellata su stereotipi abusati e Brandon Routh rimane un semplice action man.

Per Luca Maragno di Best Movie il film ricorda una puntata di un serial TV che riesce a strappare qualche risata voluta, ma anche qualcuna involontaria e merita un voto di 1 su 5.

Il medesimo voto è dato anche da Luca Castelli che su Il Mucchio Selvaggio scrive: «Non che il film di Kevin Munroe sia il più brutto della storia: in giro si vede anche di peggio. Ma per il lettore del fumetto, già il semplice accostamento appare un sacrilegio. Dylan Dog è il Rupert Everett di 35 anni. Groucho Marx è il Groucho Marx del 1935. Craven Road è Craven Road di Londra, non Rue Craven a New Orleans. E Dylan non è un investigatore privato, ma l’indagatore dell’incubo. E sempre lo sarà».

Dal mondo del fumetto le critiche non sono state migliori e per Paola Barbato, sceneggiatrice, i cam­bia­menti sono andati contro «il con­cetto proprio di Dylan Dog»: «Il rispetto per il per­so­nag­gio è fon­da­men­tale, poi la resa esterna può cam­biare».

Secondo Roberto Recchioni, sceneggiatore, è «un film brutto e piccolo», mentre per Mauro Boselli, il creatore di Dampyr, «il film ha tradito lo spirito del personaggio alla ricerca di una facilità narrativa da telefilm». Tiziano Sclavi inizialmente ha preferito non approfondire questo argomento. In seguito in un’intervista a l’Unità ha affermato: «Il film non l’ho visto e non mi piace. […] Dire che il film non l’ho visto e non mi piace è un modo per dire che non mi va di parlarne. La vicenda della cessione dei diritti di Dylan è troppo intricata per spiegarla al pubblico, ed è fonte per me solo di incazzatura (e non uso a caso questa parola forte)». Su la Repubblica XL ha ribadito che anche «quando il film uscirà in blu-ray non lo vedrò e non mi piacerà», spiegando di aver potuto leggere la sceneggiatura senza diritto di veto.

Immagine

A fronte di una critica giustamente e razionalmente spietata non resta che concludere con una semplice e quanto mai pertinente citazione: “il film Dylan Dog “Dead of Night” è una cagata pazzesca”.

La mia vita è un horror giappocinese

Immagine

Avete presente quei periodi in cui tutto inizia a cambiare e prima di potervene accorgere vi ritrovate in situazioni nuove con il cavalcante pericolo di rimanere con il culo per terra? Ecco. Benvenuti nel club. Tanto per cominciare, felicità a parte, dopo mesi di neve e freddo è arrivata la primavera. Si. Quella stagione che tanto piace agli antistaminici e alle ragazzine aventi come modello di vita Heidi. Sia chiaro: non voglio passare per l’anziana che si lamenta prima del gelo aspettando il sole per poi bestemmiare senza ritegno i “trenta gradi all’ombra” (nonostante la pensione e  reumatismi che ti costringono a letto rappresentino per me una alternativa alquanto allettante) ma un Aprile cosi mi fa pensare ad un prossimo suicidio estivo. A proposito di suicidi e morte in generale, chiunque abbia visto un qualunque horror giappocinese non potrà non ammettere quanto siano terribili, con trame assurde, contraddizioni e ulteriori personaggi che subentrano come Bruno Vespa dopo un efferato delitto. Senza parlare della fotografia e della sete di vendetta incontrollabile che il fantasma di turno mostra di avere verso il genere umano in toto (che megalomani questi asiatici). Mi sono resa conto di:

1) provare una rabbia furiosa verso chi mi fracassa i coglioni e resta impunito.  Credetemi, adesso il mestruo non centra nulla. Alle volte ho davvero il desiderio di strisciare  come una serpe (in seno) sotto il letto del/lla malcapitato/a appostandomi a dovere per poi sbucare fuori a tempo debito ricoperta di salsa Conad e con una forchetta in mano. Immagine

2) istigare le forze maligne affinchè ciò che solitamente va bene mi vada di merda. E’, effettivamente, un talento che ho sempre avuto: non faccio altro che tirarmela da sola. Piu’ mi sforzo di essere accettabilmente una non disadattata sociale piu’ la scarpa del destino che mi coglierà in fronte sarà pesante, puzzolente e causa di disagio. Immenso disagio.

3) guardare foto vecchie e improponibili di amici restando allibita. va bene, questa è una dipendenza. Una malsana, fuori controllo e inconcepibile dipendenza. Appena posso, durante un periodo malinconico e ozioso (cioè quasi sempre) mi fiondo sul profilo della vittima e vado a ritroso negli album fotografici fino ad arrivare a immagini e/o video sconcertanti che mi shockano togliendomi il respiro in cerca, nel mio subconscio, di chissà quale malcelata verità. Magari semplicemente per dirmi “ah! vedi? da quando ci sono io nella sua vita ha un profilo piu’ interessante”. Non ho ancora capito bene perchè io perda il mio tempo in questa cosa da psicolabile, ma infondo cazzeggio cosi tanto che una cagata vale l’altra e poi la sensazione che mi da spilucchiare in cerca di foto orrende è uguale a quella di una bella grattata in risposta ad un violento prurito. Aggressiva e dolorosa grattata. Immagine

4) essere incoerente ai limiti dell’umano. I colpi di scena mi sono sempre piaciuti, ma cinema e sceneggiature ora non centrano un cazzo. Un buon regista non può fare assolutamente nulla contro una paranoica visionaria. Ho passato mesi a crogiolarmi nelle mie indecisioni dovendo fare scelte importanti o meno, il dissidio tra la parte ottimista e tollerante e quella stronza e opportunista è una costante della mia vita. Nonostante mi sforzi di essere una persona migliore ogni giorno, magari vegana e con una ammirazione sviscerata per Terzani, il mio lato oscuro vince sempre. Cosi finisco per trangugiare spinacine, abbondare di maionese e bere superalcolici affogando nel’incoerenza. Immagine