IT è (ancora) un capolavoro generazionale. Ve lo dico io.

Vedere il remake di un film cult  preso da un libro altrettanto cult è come costruire un mobile Ikea: sembra semplice ma sarà difficile, emotivamente toccante e a tratti doloroso.  Per questo quando mi sono seduta sul sedile del multisala, difronte al maxi schermo, mi tremavano le ginocchia: mesi e mesi di hype e paranoie destinate a dissiparsi in un paio di ore.

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Il nuovo IT è un horror fatto ad arte, preciso, ben cadenzato nei suoi “jumpscare” e nei momenti di tensione, una pellicola articolata tra scene mozzafiato e analisi introspettive, che rimane ancorato alle paure classiche sapendole rivisitare (la ripresa delle movenze grottesche usate negli horror coreani di nuova generazione è un esempio di come anche il concetto di “terrore cinematografico” possa evolversi e cambiare con gli anni)

Nonostante lo scetticismo della critica, Andy Muschetti ha saputo ricreare e far rivere l’ansia dell’adolescenza e le sue angosce senza stucchevolezza, con le sue contraddizioni e le poche certezze in un’età che, come disse King stesso “si smette di credere a Babbo Natale ma hai ancora paura che ci sia qualcosa ad aspettarti sotto il letto, al buio”.

Non è solo questione di budget, di sapiente sceneggiatura già collaudata o di clichè horror: Bill Skarsgård è uno strepitoso Pennywise, a tratti affabile e aggressivo quanto basta, mai bidimensionale o scontato, a differenza del clown rappresentato da Tim Curry è un cattivo misurato, subdolo, che mostra bene la sua malvagità dosando ogni espressione. Di lui il regista dice: “Il personaggio ha un comportamento infantile e dolce, ma c’è qualcosa di molto perverso in lui. Bill ha questo equilibrio. Può essere dolce e carino, ma sa anche essere abbastanza inquietante”.

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Il punto forte non è solo la caratterizzazione del “villain” per eccellenza, ma una rete di intese ed intrecci emotivi in cui si rimane letteralmente intrappolati: non puoi fare a meno di simpatizzare per il gruppo dei “perdenti”, i 7 ragazzini riportati sullo schermo in una pigra estate tipicamente anni 80′, non si può fare a meno di riconoscersi in loro: disadattati, spesso fuori luogo, degli imbranati cronici inascoltati e incompresi.

Ciliegina sulla torta è la scelta del pezzo “Dear God” degli XTC, che spezza il climax di angoscia e paura del film riportandolo ad una dimensione umana, con l’intento sottile di mostrare le insicurezze e le incomprensioni interne alla comitiva.

Se avessi avuto un euro per ogni volta che da ragazzina ho corso in bici verso posti sperduti a fare giuramenti, combattendo mostri e bulli di quartiere, a quest’ora un mutuo non sarebbe un problema. Sembra estremamente banale, ma la forza di questo film, di questa miniserie tv, di questo libro, è tutta qui: IT parla di noi, ci arriva come uno schiaffo, senza preavviso o preamboli ci ricorda ciò che abbiamo lasciato, ciò di cui avevamo paura, ciò che dovremmo combattere senza sosta o scusa che tenga.

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Gli adolescenti che picchiano a turno la creatura spaventosa nelle fogne eravamo noi, qualche anno fa, con i nostri sogni a farci da scudo. Gli adulti di Derry complici nella loro indifferenza siamo noi adesso, disillusi e rassegnati, barricati nei nostri salotti vintage.

Perchè Sanremo tira fuori il peggio di noi.

Non importa che voi siate impiegati con velleità da scrittore o imprenditori fissati con il marketing estremo, vi sintonizzerete comunque su Rai 1 per guardare quello che da sempre è la cartina di tornasole della fauna artistica nazionale: il festival di Sanremo non risparmia nessuno.

Basta scorrere la home di un qualunque social per rendersi conto di quanto la settimana del Festival ingombri il profilo di tutti. Ognuno ha da dire la propria, ognuno ha il suo personalissimo modo di recepire i pezzi in gara, giudicare la presentazione delle serate e la conduzione del programma.

Senza remore e senza rimorsi.

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L’impatto dei social nella vita quotidiana crea una combo invincibile tra “questo lo avrei cantato meglio pure io” e “quanti soldi hanno speso per fare sta cagata?” degli italiani, un’antologia di commenti ridondanti e riflessioni istintive sparate come proiettili su una folla di ribelli. Il problema, in realtà, non è mai la qualità intriseca del lavoro di direttori artistici e degli artisti presi di mira ma l’importanza che la gara sembra avere per tutti, tanto da scomodare articolisti di testate giornalistiche piuttosto serie, opinionisti con anni di gavetta alle spalle e politici benpensanti, basti pensare che anche un tema caldo e delicato come quello del ddl Cirinnà sembra discusso e combattuto dal palco dell’Ariston a colpi di frange colorate e commenti al vetriolo.

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La cosa che più mi affascina di questo fenomeno mediatico è quanto il giudizio non sia minimamente (e seriamente) puntato sui cantanti in gara e sulle loro melense canzoni ma si concentri sulle tette della Ghenea, sui presunti zigomi rifatti di Garko, sull’incredibile sfumatura marrone di Conti. Il divertimento con cui si sparano minchiate a profusione sentendosi un vero critico d’arte difronte una tela malfatta è la vera moda del momento, un clichè ormai iscritto negli annali.

Il bignami di questo Festival? Garko non sà leggere nè il gobbo nè parlare nè presentare: dovevano metterci il nipote della vicina di casa al suo posto, la Ghenea sopra quelle tette impertinenti ha del cervello, lo ha dimostrato sporcandosi di cioccolato nel dopo Festival, Virginia Raffaele? Brava ma vorremmo vederla che “imita se stessa” (questa ancora me la devono spiegare) e Conti è stato riconfermato perchè, nonostante il suo discutibile e imperfetto modo di condurre, ha dimostrato di saper fare scelte intelligenti come invitare la Kidman sottoponendole domane veramente idiote.

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Naturalmente oltre la pioggia di critiche proveniente da gente preparata artisticamente come il suocero dell’amico di mio cugino c’è anche molto “sentimento”: un esempio è l’indignazione alle battute fatte sul maestro Bosso, guai a parlare male di un uomo costretto sulla sedia a rotelle, passi trattare come bambocci virtuali i co-presentatori ma c’è un limite a tutto, ovviamente ” siamo tutti uguali ma alcuni sono più uguali degli altri”.

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Quello che maggiormente attrae del Festival di Sanremo è l’estrema socialità e apertura del format, una competizione che si mostra da sempre aperta e d’impatto, questa disponibilità mediatica fa in modo che si crei una specie di incantesimo sul pubblico che non diventa più semplice spettatore e giudice di canzonette ma vero e proprio Deus ex machina in grado di capire come risollevare le sorti artistiche di questo paese, un’illusione amara che rende Sanremo una triste fiera dove ognuno si sente sempre migliore di qualcuno altro.

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L’unico dato di fatto che si trae dalle reazioni a questo programma è che non sappiamo ancora quale sia la differenza tra “buoni” e “buonisti” e “sentimenti” e “sentimentalisti”.

 

 

 

Perchè gli psicolabili sono dei miti in TV

Aver trovato un sacco maleodorante pieno di “vita vissuta precedentemente” nell’ armadio che uso come succursale del primocondiviso amorevolmente” appartenente ad una persona estranea (ndr. leggere estranea con un tono di disprezzo) mi ha spinto a reagire in un modo che, sul serio, non mi sarei aspettata.

Avevo voglia di piangere fino a svenire sul fantastico nuovo letto a due piazze con doghe in legno pensando, dolorosamente, a come possano cambiare le cose all’improvviso e alimentando la mia paura di morire da sola mangiata dai miei gatti. Invece, contro ogni previsione, ho passato le due ore seguenti cercando di capire come esprimere in inglese la parola “schifo” per trovare su tumblr la gif che meglio poteva rappresentare il mio stato d’animo.

Perchè il mondo sapesse come mi sentivo in quel preciso momento (ovvero in quelle due precise e terribili ore).

Dopo aver soddisfatto la mia voglia di malsana celebrità e condivisione sogghignando come una psicolabile difronte gli sguardi accusatori dei miei coinquilini (rispettivamente il mio cane e il mio ragazzo ed uno dei due credo stesse giudicando il mio modo di non occuparmi seriamente di lui) che rimproveravano il mio modo altrettanto psicolabile di reagire mi sono chiesta due cose:

  1. Perchè non sono la protagonista di un telefilm
  2. Perchè gli psicolabili sono sempre protagonisti di telefilm.

Ammettiamolo: gli spostati sono di gran lunga sopravvalutati in TV.

Vengono mitizzati, situazioni psicologicamente devastanti vengono presentate come “il meglio che possa capitarti nella vita” sorvolando sulla tremenda voglia di suicidarsi che serpeggerebbe nella mente di un individuo perennemente a disagio.

Ignoro chi sia stato il primo sceneggiatore a creare una sit-com dove lo psicolabile di turno godesse di simpatia e ampia stima da parte del grande pubblico nè conosco il talentuoso regista che, entusiasta, ha appoggiato totalmente questa grande e sperimentale idea di filmare psicolabili a contatto con il mondo reale (salutate Stanlio e Ollio). Di sicuro ho trovato un po’ di esempi a riguardo, esempi che, lo ammetto con brividi, io stessa seguivo appassionatamente prima che gli zombi entrassero prepotentemente nella mia vita con i loro urletti soffocati e quella dolce espressione di crudezza.

  • Una mamma per amica                                                                                                                                     

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Se io avessi davvero avuto una mamma come Lorelay Gilmore sarei in fila per il prozac al piu’ vicino sportello farmaceutico h24  (non fate quella faccia: presto esisteranno sotto qualunque semaforo di qualunque città).

Una volta, alla maturissima età di 25 anni, chiesi a mia madre se fosse il caso di iniziare o no una storia e/o frequentazione con il ragazzo che mi piaceva tanto e con cui dividevo la casa. Presa dal rimorso se qualcosa fosse mai andato storto (non è mai una geniale idea mischiare birra e sesso sotto lo stesso tetto) chiesi un parare alla mia saggia generatrice, ed il suo sommo verdetto fu: “dovresti farci del sesso. Se ti piace non fartelo scappare, se non ti piace amici come prima“.

Non ho dormito per una settimana.

Certo, ho seguito il consiglio ed è il mio attuale ragazzo ma nessun orgasmo potrà mai cancellare le due settimane di sertralina che ho ingurgitato sperando di cadere in un sonno senza sogni (credo).

  • Dexter

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Va bene, alzi la mano chi non ha mai sognato di uccidere a sangue freddo chicchessia sfogandosi per tutto il cinismo accumulato in un mese ed allo stesso tempo godendo come un maiale. Immagino che le mani alzate siano tante e che, detto ciò, molti di voi sarebbero corsi dal primo psichiatra in lacrime per aver strozzato il gatto della vicina.

Essere dei serial killer non è mai cosi figo, figuriamoci divertente.

  • Scrubs

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Ammettendo che JD merita a tutti gli effetti una medaglia al valore per la quantità ammirevole di figure di merda fatte anche solo in una settimana lavorativa (la sua) e in una settimana di cazzeggio guardandolo (il mio), non credo che saltare ripetutamente dall’avere una relazione con la tua migliore amica ad una crisi di nervi perchè il tuo capo continua a chiamarti “Susan” sia il massimo della vita.

La frustrazione ed il mobbing professionale sono tra le principali cause di stress fisico ed emotivo causando l’esplosione del cuore.

  • Diario di una nerd superstar

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Fino ad ora l’unica serie in cui la protagonista abbia davvero tentato il suicidio. La vita può essere molto difficile se le cheerleaders ti disprezzano ed il tuo ragazzo ti monta in silenzio nello sgabuzzino del bidello facendo finta di non conoscerti alla luce del sole. Peccato che sia difficile in tutti gli altri casi quando si ha 16 anni e il seno concavo.

Un consiglio spassionato? Non rifugiatevi nei blog, nella scrittura creativa, nell’immaginazione: come posso dimostrare (e come chi ha visto questa serie può osservare) non serve assolutamente a niente.

10 motivi per cui meritiamo l’estinzione

E finalmente dicembre arrivò.

Non è l’incipit di un nuovo romanzo stracciazebedei best seller di quel gran genio di Fabio Volo, ma solo la banale quanto vera constatazione che il tempo passa e che tra un inutile e demagogico comizio e le zucche intagliate, ci siamo: sta per verificarsi la fine del mondo.

Ed ecco perchè (evitatemi la frase quantomai demenziale e ovvia “secondo me”) i Maya hanno avuto le loro buone ragioni per prevedere e sotto sotto sperare la fine di noi tutti insieme appassionatamente. 

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1) Il Populismo

Quando nacque era in assoluto il movimento politico più positivo, giusto e idealista in assoluto. Il popolo va tutelato. Ha i suoi sacrosanti diritti, merita di essere sovrano e di formare al meglio tutte le personalità creative e meritevoli che raggiungerano con l’uso della meritocrazia le cariche più alte del blablabla.

Certo. Peccato che, con l’andar del tempo, si sia rivelato fautore delle più inutili e banali critiche al mondo amministrativo e/o governativo basate sul nulla. Mi fanno ridere (con amarezza) i sostenitori del “uff, che palle, non lo so e non mi interessa“. I creatori della più bieca autoreferenzialità che hanno il coraggio barbaro di fare del populismo lamentandosi della situazione nazionale con luoghi comuni pur non facendo (nè esprimendo) un emerito cazzo. Situazione che si ritrova nell’ambito accademico scientifico “uffaaaa se volevo fare questa cosa in particolare non avrei scelto questo corso. Che palle però, eh!” lamentandosi poi di non trovare un’occupazione.
Si può essere più coglioni di cosi?

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2) L’improvviso comportamento bipolare delle/gli ex.

L’ex del mio coinquilino decise di sputtanare sei anni di rapporto scegliendo di fare la groupie per un gruppo locale di merda.

Resasi conto relativamente presto di ciò che aveva perso, provò a far ritorno con la coda tra le gambe all’ovile sulla scia della pietà basata sulla sua incapacità cronica “Medioman aiutami tu” ed affidandosi al concettuale movimento del “gattomortismo“.  Dopo aver capito che non era possibile ripristinare la situazione lasciata per ovvi motivi decise, saggiamente, di  propagandare ad amici in comune e alla nazione in generale quanto fosse brutta la mia persona e quanto fosse importante starmi lontano. Era cosi concentrata nel suo intento di parlarmi alle spalle che per un attimo ho temuto di essere anche io chiamata per poi sentirla spettegolare al telefono su me medesima.

Quando l’oggetto del desiderio le vietò assolutamente di continuare questa pagliacciata infantile, il tono improvvisamente cambiò: scrisse addirittura sul suo profilo quanto fosse contenta, felice e soddisfatta della situazione in cui si trovava e di convivere insieme al suo nuovo partner (ovviamente allo scuro di tutta la manfrina) e quell’orrendo cane protagonista inquietante di ogni fotogramma che riguardi la sua noiosa vita.

Mi piacerebbe incontrarla in un bar, magari in centro, per poterle dire senza mezze misure: “ahahahaha camina margiala!”

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3) Il Veganesimo.

Sono irrazionali, pedanti, irragionevoli e perseguono con fervore i loro ideali.

Non esiste eccezione, obiezione o ipotesi che possa dar torto al loro personalissimo e sacro fine. Se state pensando all’estremismo dei mujaheddin dopo aver letto queste due righe, allora ho reso davvero l’idea. Non si può cadere nel crimine o sbattersene altamente della salute altrui proponendo uno stile di vita estremo (e innaturale) a qualunque bipede onnivoro e pensante. Una specie intelligente e degna della sopravvivenza ghettizzerebbe immediatamente determinati assertori di baggianate pseudo-fantascientifiche. Ecco.

Noi no.

Se non altro anche loro professano l’estinzione umana. Un barlume alla fine di un lungo e buio tunnel.

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4) Dawson’s creek

Il telefilm più squallido di sempre.

Ancora mi chiedo chi aveva il compito di creare e immettere nella sceneggiatura i dialoghi anxiety girl” della serafica Joey Potter. La odiavo. Tutto questo miasma adolescenziale in eccesso per poi finire con i soliti quattro stronzi della paranoica comitiva che se la fanno tra di loro. Evidentemente il resto del pianeta non li ha soddisfatti.

Va da se che una specie realmente evoluta con del giudizio critico giammai proporrebbe un telefilm del genere e degenere alla propria prole.

Nemmeno su La5 il primo pomeriggio.

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5) L’equo e solidale.

Ma chi cazzo ha detto che serve?

Chi pensa che possa sostenere e addirittura rianimare la situazione economica del pianeta evidentemente non ha capito qual’è il senso profondo di questa crisi.

Invece di cagare il cazzo con lo stato su un presunto Natale equo e solidale come se spendere 300 euro per una qualunque banalità “hand made” potesse risollevare le sorti dell’economia italiana, questo Sacrosanto Natale fate regali vuoti con all’interno un bel bigliettino: “scusami, pensavo che i Maya avessero ragione”.

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6) Le UGG

Orrende.

Sono orrende. Degli scarponcini deliberatamente rubati a Goku che non svolgono sostanzialmente nessuna funzione (eccezion fatta per la smorfia di incredulità che suscita nei passanti accortisi  del prezzo esorbitante esposto in vetrina).

Si, perchè oltre ad essere brutti, mollicci quando piove (contro ogni previsione di inverni caldi e floridi) e con un design improponibile, costano anche un culo di soldi.

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7) I programmi di cucina.

Non bastava evidentemente la Clerici a darci l’idea di una incompetente che finge simpatia e trasuda allusioni sessuali da tutti i pori.

Dovevamo anche avere quel pezzo di manzo di Gordon Ramsey a sbraitare contro tutto e tutti, come se cucinare con l’ansia nel culo fosse l’obiettivo dell’umanità intera. Grazie a Dio la Findus, con i suoi surrogati di “famigliola felice” in tetrapack corre in nostro soccorso insieme alla Mulino Bianco. Ipocrisia a gogò ma sempre meglio della nevrosi costante servita con contorno di frustrazione.

“Io non ci sto!” avrebbe detto Scalfaro.

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8) Il Brasile.

Cosa abbiamo fatto di male per meritarci il Brasile?

Produce in costante aumento fighe e fighe e calciatori e fighe e samba. E anche fighe. Chiunque abbia passato l’ultimo mese dell’estate su una qualunque spiaggia avrà subito lo sculettamento intenso a ritmo di balli odiosi e privi di senso con musiche forzatamente caraibiche. Un coma. Peggio se a fomentare tale trauma psicologico e fisico ci si trova la brasiliana infoiata in tanga: preparatevi a vedere orde di maschioni con mutande rigorosamente bianche in bella mostra.

Tipico esempio della fauna brasiliana la bella Juliana Moreira: in Italia da tempo immemore e ancora incapace di salutare in modo comprensibile. Esempio dell’emancipazione femminile. Mi esulo dal commentare i calciatori carioca della nuova generazione: si commentano da soli. La sola vera risorsa che hanno degna di nota continuano a spiattellarla in faccia al resto del mondo come unica e reale panacea di tutti i mali,inserendo in qualunque elenco di ingredienti di qualunque prodotto cosmetico una qualche ceppa di pianta/fiore/ramo/erba/sticazzi proveniente dalla loro foresta amazzonica. Alcune case erboristiche ci prendono talmente gusto ad ingolfare l’Inci di assurdità improponibili che mentre leggi pensi “elamadonna“.

Si pensa che il mostro di Lochness non si trovi più nel celeberrimo lago ma lì. Tant’è.

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9) Il bijoux esagerato

Chiunque dimori in una città di provincia e di consueto passeggi tra le vetrine del centro avrà notato l’impellente quanto inquietante crescita fisica dei bijoux.

Un chiaro esempio ce lo fornisce la stilosa (si fa per dire) Anna Dello Russo, direttrice di Vogue Japan, anche lei è stata affascinata dal potere del low cost del marchio svedese di H&M ed ha voluto lasciare la sua impronta  con la sua nuova collezione di bijoux per H&M: un’impronta che ha scrafagnato nettamente il concetto di classe.

Simbolica la presenza degli alligatori ai lati della montatura: prefazione dello stile sobrio che tanto piaceva a Chanel letteralmente divorato dal cattivo gusto.

Immensi e dai colori sgargianti questi accessori sicuramente originali sono stati progettati per favorire la morte di chi li indossa.

Provate ad indossarne almeno una decina durante una giornata assolata in pieno traffico e riparliamone.

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10) Il giornalismo televisivo

La televisione spazzatura è come l’universo: infinitamente vasta.

Non c’è canale, rete o spot che non celebrino costantemente la caduta vertiginosa del giornalismo in tv. Manichini ben incipriati che si sforzano di manipolare il consenso del pubblico assecondandone la voglia di particolari scabrosi al fine della sensibilizzazione della massa.

Una spirale dell’informazione che non porta assolutamente da nessuna parte, se non quella buia e senza ritorno del “barbarino di turno”: figlio della D’urso è un esemplare sempre più spesso presente nei social network, armato di tastiera e mouse pronto a commentare con fervore qualunque notizia di cronaca il mondo digitale gli presenti. Commenti sempre degni di un sano ed equilibrato populismo. Origine di tutti i Mali.

Cult la frase: ” VERGOGNA! io l’avrei ammazzato squartandolo vivo e dandolo in pasto ai piranha quel verme!”

Mi piace ricordarli cosi. Costruttivi e sobri.

Tra il bianco e il nero c’è il “neromenonero”.

Chi lo avrebbe mai dettoArisa c’ha le palle.

Si è alzata convinta, con la sua frangettina vintage lievemente scomposta, ha urlato la sua indignazione, ha sbattuto la mano sul bancone infiammato dal “sacro fuoco” dei giudici increduli e interdetti.

Un’indignazione bella e buona, contro Simona Ventura, contro il qualunquismo della musica commercial italiana, contro il giudizio affrettato del pubblico troppo poco Indie, insomma contro e basta.

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E diciamolo, ci è piaciuto.

Ci piace l’indignazione alla “cazzonesò”, quella sobria ma non troppo, imbevuta di presunzione condita con un po’ di arroganza che spinge il talent show ad un livello più alto di share perchè è giusto quello che l’italiano con Sky televisorone e cazziemazzi cerca e vuole il week end.

Penso “cazzo! me lo sono perso! che rottura di coglioni” perchè l’indignazione spicciola fa sempre bene, ti fa subito l’effetto opinionist state of mind, telespettatore vivo ed ecco che la voglia di osservare smanioso la lite del momento ti spinge a sistemarti faccia a faccia col plasma esagerato e pop corn in mano. Studi scientifici fatti all’università di Calapricella dimostrano come si, godiamo delle liti, delle incazzature, di queste piccole malvagità che si sprecano pure tra condomini le prime settimane del mese (ma anche le ultime) e che goduriosi ci beviamo in tv.

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Godiamo di questo “neromenonero” che ci circonda, l’irosità in pillole, lo spettacolo del confronto un po’ violento e un po’ burino che, alla fine, non porta da nessuna parte ma fa notizia. Dopo il nuovo trend cromatico del greige, uno dei colori preferiti dai moderni designer e arredatori per le ampie e spaziose case urbane, poiché permette, tra le altre cose, di avere una base neutrale e allo stesso tempo calda, per fa risaltare gli altri colori che completano l’arredamento e bla bla bla, creato nientepopòdimenoche da Armani, mi accorsi che anche il “neromenonero” merita.

Merita per la leggera patina luminosa messa su borse che altrimenti sarebbero troppo stucchevoli con quel nero tono su tono, merita sulle scarpe che senza patina vellutata “menonera” della suola sarebbero troppo poco chic, merita nei comizi in piazza davanti questa massa di gente attenta e propensa al cambiamento che si bea di questo neromenonero nelle accuse litigiose del politicante di turno, il “meno peggio del peggio assoluto”. Moderni talk show dove candidati affondano in questa tonalità senza sfumature sparandosi a vicenda accuse a casaccio.

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La prima volta che dissi a voce alta “ma questo non è nero, è neromenonero, è diverso” Malpela, mia amica dai tempi delle Reebok versione “fluo” mi prese per il culo quaranta giorni e quaranta notti. Non riusciva a capire il perchè del coniare un colore che non ha senso e non esiste e tra l’altro sembra detto da una affezionata frequentatrice degli Alcolisti anonimi.  

Io, intanto, mi sono decisa: con tutto questo neromenonero molto radical poser da grande voglio diventare Matteo Renzi.

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Anche io voglio essere giovane dentro. Anche io voglio essere la promessa della politica, “l’astro del mattino e della sera”. Anche io voglio essere trendy e impegnata, politicamente corretta, elegante ma con semplicità e semplice con eleganza. Anche io voglio essere scelta come “meno peggio” del pessimo totale. Anche io voglio essere come la scarpa di velluto con banda neromenonera che scegli per essere classico ma non troppo con una costante e sottile indecisione di sottofondo.

Eppoi, lo dicono anche gli Afterhours:

“la mia generazione ha un trucco buono
critica tutti per non criticar nessuno
e fa rivoluzioni che non fanno male
così che poi non cambi mai
essere innocui insomma che sennò è volgare”